Questa è la vicenda di un Paese passato alla storia come palcoscenico mondiale di una delle dittature più criminali del Novecento. Ma adesso un po’ di aria nuova entra da una finestra chiusa per troppo tempo.
“È morto Pinochet!” cantava La Famiglia Rossi nel 2003. Il gruppo folkloristico italiano strimpellava, senza saperlo, un evento che sarebbe accaduto appena tre anni più tardi. Il dittatore cileno Augusto Pinochet è morto infatti nel 2006 ma, tre anni prima, era stato messo definitivamente agli arresti domiciliari per tutta una serie di crimini di guerra, civili e sociali, nonché per essere stato uno dei principali fautori dell’Operazione Condor. Raccontata così, però, la storia del Cile appare sfocata, dai confini incerti. In realtà è una storia netta, a tinte forti, fatta di colpi di Stato, sequestri collettivi sotto la luce del sole, stadi riempiti con ragazzi da macellare e una lunga sequenza di abusi di potere che sono iniziati nel 1973. Io, che sono una Millennial ignara ma non ignava, provo a raccontarla per tutti quelli che c’erano e non l’hanno capita, e per tutti quelli che non c’erano e che non l’hanno potuta imparare. Perché diciamocelo, a scuola nessuno parla volentieri di Salvador Allende e Augusto Pinochet.
Siete pronti?
Incominciamo dal Cile
Nell’estremo sud-ovest americano, in una lunghissima striscia di terra frastagliata e disordinata fra l’Oceano Pacifico e la Cordigliera delle Ande, un Paese si è ritagliato il suo spazio: la Repubblica del Cile. È una nazione lunga più di due volte l’Italia. Per intenderci, se partissimo da Bolzano, scendessimo fino alla punta pugliese di Santa Maria di Leuca e poi tornassimo indietro, ancora non avremmo percorso tutta la lunghezza del Cile.
Qui, in questo alto e magro paese latino, nella seconda metà del ‘900, accadevano due cose piuttosto importanti: la prima è che nel 1946 il radicale Gabriel Videla era stato eletto presidente con il sostegno del Partito Comunista del Cile. La seconda è che con l’inizio della guerra fredda i comunisti venivano esclusi dalla politica attraverso una mossa e contromossa politica chiamata “Legge maledetta”. In breve, questa legge intercontinentale bloccava ogni tentativo che consentisse a un governo progressista, comunista o socialista, di esistere. Solo nel 1970 un politico socialista riuscì a sedersi come capo del governo: Salvador Allende.
L’avete vista la foto in copertina?
È lui, Allende. Sembra un nonno zuccheroso, di quelli che rimbecilliscono con i nipotini. E in effetti è proprio così. Ma non pensate che questa sia una foto come tutte le altre, come ciascuno di noi ne ha almeno un paio sepolte in qualche cassetto. No. Questa foto è straordinariamente “bouleversante”, come dicono i francesi (commovente, in italiano, rende meno l’idea). Ma è una storia lunga. Facciamola iniziare con un brevissimo ritratto di Salvador Allende.
Uomo sofisticato, colto, poetico sotto certi aspetti. Salvador Allende era un personaggio amato. La sua coalizione, Unidad Popolar, aveva l’appoggio della maggioranza del popolo cileno e di tutte quelle frange di società che da più di cinquant’anni vivevano nella miseria. Non dimentichiamoci che il Cile, dopo la Prima guerra mondiale, era stato messo KO dalla Grande Depressione e che, nel 1960, era stato vittima del più forte terremoto mai registrato in Sud America: una magnitudo di 9,5 aveva distrutto quasi tutto il territorio. Diciamo che Allende eredita un paese quasi raso al suolo e deve far fronte a un popolo che lo sostiene, ma che muore di fame. Non stupisce che il suo governo abbia dovuto confrontarsi con enormi problemi economici, nonché con una spietata opposizione le cui mazzate politiche arrivavano come blocchi delle riforme e mosse coercitive. Il tutto, senza contare il massiccio terrorismo psicologico del governo degli Stati Uniti presieduto da Richard Nixon, con Henry Kissinger Segretario di Stato. Qui, in Cile, allora e per sempre, lo Zio Sam darà il peggio di sé, nel non nascosto tentativo di strangolare economicamente il governo di Unidad Popular.
E infatti Allende, pur tentando riforme come la nazionalizzazione delle aziende che estraggono il rame – la maggior parte del mercato interno ed esterno del paese faceva leva su quello -, vacilla. Il Paese sprofonda in una crisi economica dove l’inflazione galoppa e i continui scioperi del ceto medio radicalizzano la vita pubblica, facendola precipitare nel caos. Molto famoso è rimasta nella storia il blocco dei camionisti, che per giorni paralizzano il Paese (quello magro, lungo e stretto, ricordate?).
Il Golpe militare di Pinochet
E dunque, laddove il malcontento dilaga e la protesta diventa endemica, s’avvelenano i denti della politica. Arriva “el golpe”, il colpo di Stato. Nel 1973, appena un anno dopo lo scandalo del Watergate e le dimissioni del già citato Richard Nixon, l’Esercito cileno guida una sedizione armata. Avallati dalla CIA, – e da chi altri, sennò? -, i soldati entrano con forza nel Palacio de la Moneda, cioè la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica. Poco prima di essere ucciso dai golpisti, Allende lancia un ultimo messaggio alla radio. Il suo discorso influenzerà molto la coscienza del Paese e del mondo. Ne riporto qui le parti più belle:
«Sicuramente, questa sarà l’ultima occasione per rivolgermi a voi. Non c’è amarezza nelle mie parole, ma disillusione. Che siano un castigo morale per coloro che hanno tradito il loro giuramento. Io pagherò con la vita la mia lealtà al popolo […] e sono certo che i semi che abbiamo piantato nella coscienza pulita di migliaia e migliaia di cileni non saranno estirpati definitivamente. Siate forti. […] Mi rivolgo ai lavoratori del Cile che hanno continuato a lottare […] mi rivolgo ai giovani, a coloro che cantarono e ci donarono la loro allegria e il loro spirito di lotta. […] Radio Magallanes sarà messa a tacere e la mia voce non vi raggiungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Sarò sempre accanto a voi. La storia è nostra e la fanno i popoli».
Se mai qualcuno vi dedicasse una lettera d’amore, questa non sarà mai bella quanto il discorso che Allende fece al suo popolo. Era la prima volta che un Presidente parlava senza un testo scritto, senza una preparazione formale, senza una schiera di dattilografi a correggere toni e virgole. Negli anni a venire, le sue parole verranno rilette, citate, epigrafate. Sono state un grido di speranza e libertà.