L”Iraq di Saddam, come non ve l’hanno mai spiegato
Nell’ottobre del 2021c’è stata la settimana dedicata al IIFF. Sapete che cos’è? Si tratta dell’Independent Iraqi Film Festival, a cui si appoggia una comunità no-profit e una piattaforma online che supporta i film da e riguardo l’Iraq. Si tratta di un’iniziativa fatta da volontari, musicisti, filmmaker e comparse amatoriali. Niente a che vedere con la pomposa Hollywood e i soldi che girano attorno al festival del cinema di Venezia. Questa è un’iniziativa fatta dai Millennial che tentano di sollevare dalla miseria un paese e una storia che in quarant’anni abbiamo dimenticato. O che forse non abbiamo mai conosciuto davvero. E quando ne abbiamo preso coscienza, volgeva al termine. Sempre che ci sia, un termine.
Due domande basic – Perché e cos’è questa guerra
Perché racconto la Guerra del Golfo? A proposito, la potete trovare anche sotto la voce Desert Storm, così come l’aveva battezzata il generalone americano Herbert Norman Schwarzkopf.
Comunque ne parlo perché proprio con quella guerra è iniziata una specie di effetto domino in una vasta porzione di mondo a cavallo tra Mediterraneo e Asia. C’è un intero, enorme e storicissimo territorio, che va dalle dolci spiagge della Siria alla catena dell’Hindu Kush, dove il conflitto è ormai endemico. E, in linea di massima, ce lo abbiamo portato noi occidentali. Questo va detto senza inutili giri di parole. Ma procediamo con ordine.
Di una cosa sono sempre più convinta: non possiamo capire quanto successo in Afghanistan ad agosto 2021 senza prima chiarire alcune situazioni e antefatti che ci porteranno, inevitabilmente, a raccontare quel che ha vissuto l’Afghanistan, vent’anni fa. Eh, direte voi, ma l’Afghanistan e l’Iraq non sono mica lo stesso paese. No, certo che no. Non hanno la stessa cultura, e tradizioni, e nemmeno avevano gli stessi problemi. Non sono neanche geograficamente vicini, visto che in mezzo c’è l’ Iran. Ma sono finiti insieme in un grande calderone internazionale di provocazioni, occupazioni, orrori e povertà. E, come spesso accade ai Paesi che incrociano le armi con gli interessi occidentali, sono destinati a una sorte piuttosto grama.
Che cosa è stata la Guerra del Golfo?
Un dittatore regionale, Saddam Hussein, fino ad allora così amico degli Stati Uniti da pensare di poter fare l’impunito nel cortile di casa sua, ecco, ha fatto il gradasso: ha occupato militarmente il Kuwait, uno dei tanti staterelli finti per geografia e tradizioni ma verissimi per gli interessi petroliferi di mezzo mondo. Qui va detta una cosa che non giustifica il gesto aggressivo iracheno, però lo inserisce in una certa cornice: storicamente, quel pezzo di territorio che ha uno sbocco al mare (a differenza dell’Iraq attuale) faceva parte del grande impero babilonese (do you remember il Tigri e l’Eufrate?). Ecco, rientra in una certa mitologia dell’Iraq sentirsi erede di quella epopea imperiale.
Sta di fatto che il 2 agosto 1990 è messa in piedi un’aggressione militare in piena regola, che viola un bel tot di regolamenti internazionali. L’Onu e il suo Consiglio di Sicurezza emettono la Risoluzione 660 (ritiro immediato dell’esercito) e poi la 661 per le prime sanzioni economiche. Va avanti per un po’ una bella trafila di risoluzioni Onu, fino al cosiddetto ultimatum di fine novembre, che obbliga l’Iraq ad abbandonare il territorio occupato del Kuwait entro e non oltre il 15 gennaio 1991. In caso contrario, una coalizione internazionale a guida americana sarebbe intervenuta. Così è stato.
Saddam nel suo Golfo
Facciamo un passo di lato. Parliamo un attimo di Saddam Hussein. Una cupa figura. La sua lunga carriera lo ha visto protagonista nonché mandante di alcuni fra i più gravi crimini contro l’umanità: ha fatto per conto degli allora amici americani un’assurda guerra all’Iran degli Ayatollah, costata a entrambi un numero esorbitante di giovani soldati. Ha represso nel sangue le minoranze etniche irachene, per esempio quella curda, senza risparmiare l’uso anche di armi chimiche. Ha imprigionato ed eliminato centinaia di migliaia di oppositori politici, spesso provenienti dalla sua stessa presunta formazione politica e poi naturalmente chiunque si opponesse per motivi religiosi. Bel personaggino, insomma.
Ma due cose gli vanno riconosciute. La prima è che è morto con una certa dignità personale, porgendo il collo con fierezza alla corda che lo stava impiccando. La scena è andata in onda su tutte le televisioni del mondo. Era il 30 dicembre 2006 (quindi quando la prima Guerra del Golfo si era conclusa da 15 anni), e i tutti i telegiornali hanno mandato in onda filmati che riprendevano di nascosto l’esecuzione. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’impiccagione di Saddam Hussein su tutti i televisori in salotto è uno dei ricordi più crudi e sconvolgenti per i Millennials come me, che all’epoca compivamo 10 anni. E la seconda? Beh, ha inventato un modo di dire da allora in poi rimasto leggendario. Aveva definito lo scontro di terra fra le sue truppe e quelle a guida americana «La madre di tutte le battaglie». Per cui quando adesso sentite dire che quella partita è “la madre di tutte le partite”, che quella moto è “la madre di tutte le moto”, sappiate che il precursore verbale del modo di dire è stato l’orrendo Saddam.