L’iraq di Saddam, il sequel
Dunque, dove eravamo rimasti? Ah sì, era appena finita la Prima Guerra del Golfo, Saddam Hussein si è arreso e l’Iraq tracollava in una miseria da cui non si sarebbe mai più rialzato. D’altro canto, la guerra in Iraq non è mai finita davvero, si è solo presa una breve pausa di riflessione: il secondo conflitto che ha visto coinvolte le potenze internazionali contro il regime di Saddam è infatti proprio dietro l’angolo. Ma, come sempre, andiamo con ordine.
È l’11 Settembre 2001. Crollano in mondovisione le Twin Towers: America under Attack, come scrivono in sovrimpressione tutte le dirette della CNN. Gli Stati Uniti e al loro Presidente, Bush Junior, devono decidere come reagire. Nel giro di poco tempo lo faranno in modo inusuale, comunque mai cavalcato prima nella storia militare: elaborando la cosiddetta Dottrina Bush della guerra preventiva. In sostanza, non avrebbero più atteso attacchi dei nemici, ma avrebbero usato tutta la loro potenza militare per prevenirli. George Bush dichiara guerra al terrorismo e, nello sconforto delle istituzioni internazionali, si prepara ad invadere quel Paese che i suoi Marines conoscevano già molto bene. L’Iraq.
Perché di nuovo Saddam? Cosa c’entra lui con i mujaheddin suicidi che hanno dirottato due aerei? Ancora oggi è difficile dirlo, visto che semmai gli attentatori avevano cittadinanza e relazioni con l’Arabia Saudita (molto amica degli Usa). Diversi commentatori se la cavano con la teoria del “capro espiatorio”, tradotto in modo più grossolano potremmo dire: ‘ndo cojo, cojo.
Passano pochi giorni e Osama bin Laden, capo di Al-Qāʿida, rivendica l’attacco alle Torri Gemelle. Ma Osama sta in Afghanistan. Ora, abbiamo già detto che Afghanistan e Iraq non sono lo stesso Paese, e nemmeno stanno troppo vicini, visto che di mezzo c’è l’immenso Iran. Ma forse agli Stati Uniti di Bush non importano i confini, né le distanze. Mentre migliaia di soldati armati fino ai denti vengono spediti in Afghanistan, il Presidente Bush fa un discorso ai cittadini statunitensi divenuto celebre per i toni esaltati e romanzeschi: parla di un «asse del male», formato dagli «stati canaglia», a cui bisogna contrapporsi con ogni sforzo. Gli stati canaglia sono così definiti perché in forte contrapposizione con tutti quei valori politici, etici ed economici che contraddistinguono i Paesi occidentali. Fra gli stati canaglia, spiccano l’Iran, la Corea del Nord e, naturalmente, l’Iraq.
Cosa si diceva di questa guerra
Su questo secondo intervento americano in Iraq gli animi di tutto il mondo si accendono, e non poco. C’è chi sostiene la mossa militare e chi la ritiene aberrante. Chi è a favore di questa guerra intravede nell’intervento americano, quindi nell’abbattimento del regime iracheno, l’instaurazione di una repubblica democratica che avrebbe risollevato il Paese dalla povertà estrema, eliminando le gravi violazioni dei diritti umani di cui il regime di Saddam era responsabile. Parlo proprio di atrocità nei confronti dei curdi, resi succubi e schiavi, e della popolazione irachena in generale, che viveva sotto una dittatura piuttosto sanguinaria da ormai due decadi. Il secondo, fortissimo, punto a favore era il sospetto che Saddam stesse per confezionare delle bombe atomiche o comunque armi di distruzione di massa. Da qui tutta l’ossessiva ricerca delle cosiddette smoking guns, quelle pistole fumanti che avrebbero certificato l’esistenza di attività nucleari illecite di Saddam.
Bush era infatti convinto che in Iraq, nascosti da qualche parte, ci fossero container pieni di armi nucleari, biologiche e chimiche. Il disarmo dell’Iraq come potenziale minaccia per l’Occidente faceva proprio leva sulla paura che i terroristi islamici avessero fra le mani una bomba atomica. Per la cronaca, va qui precisato che, come rivelerà invece un’analisi post-bellica, la quantità smisurata e millantata di armi nucleari e simili altro non era… che una bugia. In Iraq le armi sono sempre state poche e vecchie, lontane anni luce dall’essere nucleari.
I contrari alla nuova guerra, invece, leggevano in questo accanimento contro l’Iraq un inaccettabile pastone di motivazioni economiche e finanziarie, nascoste sotto la comoda coperta dei diritti umani. Tra i grandi renitenti alla leva, va ricordata la Francia. In generale, tutta l’Europa, tranne il Regno Unito, era piuttosto tiepida in proposito. Il motivo di interesse economico era piuttosto palese: piazzando militari in ogni dove sul territorio iracheno, l’aumento della produzione e della forza lavoro avrebbe abbassato il prezzo del petrolio greggio, facilitando assai l’intera economia occidentale. Un’altra motivazione, tanto storica quando sociopolitica, vedeva nella guerra in Iraq un ennesimo assist nei confronti di Israele. Stretto alleato degli Usa, Israele avrebbe beneficiato dell’eliminazione di uno dei suoi più vecchi e coriacei nemici. Ebbene, così è stato.
Infine, chi urlava a gran voce che l’intervento in Iraq poco o nulla avrebbe potuto nei confronti del gruppo terroristico con cui – forse – il dittatore Saddam aveva contatti, aveva ragione. Gli ipotizzati legami con il terrorismo e con Al-Qāʿida – rimasti senza dimostrazione anche negli anni successivi all’intervento militare statunitense – appaiono sostanzialmente insufficienti a giustificare l’invasione. Mentre in tutto il mondo proteste e manifestazioni anti-guerra accendevano piazze e dibattiti televisivi, Bush inizia un breve ma durissimo braccio di ferro con l’ONU. Alle Nazioni Unite siedono fianco a fianco i pro e i contro la guerra. Nel Consiglio di Sicurezza, due membri permanenti, la Russia e la Cina, sono contrari all’intervento. All’Onu non resta che attestarsi su posizioni equilibrate e un po’ passive. Ma gli Stati Uniti d’America hanno deciso, e la guerra si deve fare. Il 20 marzo 2003, tutto incomincia.