L’Iraq di Saddam, il sequel
(Qui c’è la parte 1)
In realtà la guerra comincia prima, e sembra finire subito
Diciamo le cose come stanno. Ci piace avere una data di inizio, ci fa leggere la storia come una successione lineare e pulita. Ma non è che in Iraq prima del 20 marzo stavano tutti allegri e gioiosi fra le strade di Baghdad e il 21 marzo erano tutti barricati in casa o sottoterra. No. I Marines sono nel Golfo Persico da molto tempo, anzi, forse non lo hanno proprio mai lasciato. Semplicemente, presidiano con le armi il Kuwait (la cui invasione aveva dato il via alla Prima Guerra all’Iraq, do you remember?), mentre l’ONU ancora tergiversa sulla decisione da prendere. E allora perché diciamo che la Seconda Guerra del Golfo inizia proprio il 20 Marzo 2003, se gli americani stanno già lì nel 2002, e in realtà dal 1991? Perché Saddam Hussein ha detto un secco NO alla richiesta (obbligo) di abbandonare il potere e andare in esilio. Perché Saddam non è uomo da ultimatum, e Bush non è uomo da rimangiarsi la parola (non da sobrio perlomeno: ma questa è una perfidia, benché oggetto di molte battute e di molte gag americane).
E dunque alle porte della primavera, in Iraq, scoppia la guerra. Anche nella Mezzaluna Fertile di liceale memoria, le prime gemme sugli alberi vengono stroncate dalle bombe americane, lanciate ininterrottamente per giorni. Le forze armate irachene sono missing, anche la vantata contraerea che per Saddam non doveva «far passare neanche uno spillo», non funziona: nel Paese è raso al suolo il 90% delle abitazioni civili, degli ospedali, delle istituzioni. Quel poco che era rimasto in piedi e ricostruito a fatica dopo la Prima Guerra del Golfo viene abbattuto definitivamente da ventimila missili e più di cinquantamila bombe. Sembrerà superfluo dirlo, ma le unità irachene si disintegrano prima di incontrare il nemico; vuoi per i bombardamenti, vuoi per l’incompetenza o le diserzioni dei comandanti stessi, vuoi per la scarsa motivazione o le cattive condizioni delle loro armi. Gli iracheni non combattono affatto ma anzi, in larga parte, muoiono sotto le bombe statunitensi.
La battaglia via terra e via aria si conclude in modo piuttosto rapido. Alla fine di marzo i Marines hanno occupato il porto Umm Qasr, dove partono enormi navi cariche di petrolio – anche qui pare superfluo, ma io lo dico. Impossessarsi dei giacimenti petroliferi e assicurarsi che il trasporto del greggio continuasse, a basso prezzo, è stata la task principale dell’avanzata americana. Le ragazze bionde delle manifestazioni americane contro la guerra lo hanno scritto a mano sui loro cartelli: «No bloo(n)d for oil», ci sono ancora le foto in circolazione.
Tra il 10 e il 15 aprile, quindi poco più di tre settimane dall’inizio dei bombardamenti, i soldati statunitensi entrano a Baghdad. Le difese crollano, i generali dell’esercito iracheno, quei pochi rimasti in vita, sono arrestati o uccisi, e George Bush esulta in televisione: «Oggi finisce la guerra in Iraq», proclama commosso, con la spilletta della bandiera americana attaccata al bavero della giacca. No. Non è finita neanche un po’ (ma poi vedremo perché) Ironizzavo tempo fa con un amico che, prendendo un tomo di storia sulla vicenda irachena, mi ha detto: «Non capisco perché nel 2003 George Bush dice che la guerra in Iraq è finita e mi mancano ancora 400 pagine per finire il libro».
La resa di Saddam, e tutto ciò che accadde fino al 2011
Houssein l’aveva già scampata una volta. Sul finire della Prima Guerra del Golfo, la sua prestanza politica era ancora troppo forte e il suo nome troppo potente perché le forze internazionali potessero decidere o meno del suo destino. Ma nel 2003 Bush e tutti gli altri vogliono la sua caduta, con ogni mezzo. E in realtà questa avviene, anche in modo piuttosto cruento. La caduta del regime iracheno è stata, in tutto e per tutto, una disfatta. Ma poiché i fedeli di Saddam sono tutti nascosti o latitanti, ai soldati americani vengono date 55 carte, proprio come nel mazzo del poker, con le immagini e i nomi dei gerarchi più importanti da arrestare, o comunque uccidere a prima vista in caso oppongano resistenza.
I soldati incominciano una caccia all’uomo assolutamente arbitraria e uno dopo l’altro stanano gli ex fedelissimi di Saddam nelle case degli iracheni, nei bunker in mezzo al nulla, nelle botole scavate sottoterra. I figli di Houssein vengono uccisi, lui arrestato e torturato. Se ancora non si fosse capito, la guerra sospende il diritto, e va detto: la gestione del dopoguerra iracheno ha avuto ben poco a che vedere con la democrazia. È stata una specie di gioco spara tutto dove i soldati americani sono i segugi, e l’ex classe dirigente irachena le volpi.
In questa lunga ed estenuante partita a pagarne le spese sono i civili. Da una parte, una società ancora percorsa da divisioni etniche, religiose e anche tribali, dall’altra un ex regime che sfrutta queste divisioni per praticare discriminazioni e soprusi fra i vari gruppi. E poi, in alto, su un piedistallo protetto da armi di ultima generazione, l’esercito americano che occupa militarmente il territorio. In tutto questo, nel corso degli anni successivi alla morte di Saddam (2006), si sono fatte largo fazioni politiche e partiti religiosi che non hanno alcuna intenzione di stare a guardare mentre il potere occidentale istituisce uno dei tanti “governi amici” in nome della democrazia, mentre beve avido alle mammelle petrolifere.
Non passa molto tempo prima che gruppi di ribelli armati, disomogenei e disorganizzati, iniziano le rivolte contro gli occupanti. È l’inizio della guerriglia contro le forze occidentali da parte di gruppi sciiti e sunniti (anche in lotta fra di loro) che proseguono saltuariamente negli anni 2006-2009 con attentati alle moschee e alle basi militari. Sono gli anni di fotografie che ritraggono palazzi distrutti e bucherellati dai colpi di proiettili. Muoiono migliaia di persone, fra le strade delle maggiori città e anche lungo le viettine polverose di campagna si scorgono cadaveri di uomini e donne, giovani e bambini. Lo strascico della guerra in Iraq è un velo di morte, distruzione e povertà che serve a ribadire, quantomeno nell’immaginario comune occidentale, un quadro molto preciso della vita in Medio Oriente: l’indigenza e la criminalità.