La vicenda che la Cina vuole dimenticare
(Qui c’è la parte 1 e la parte 2)
La situazione diventa mortale
Arriviamo alla notte del 3 giugno. L’esercito, sotto ordine di Xiaoping, inizia a muoversi dalla periferia verso piazza Tienanmen. Il governo ordina ai cittadini di rimanere nelle loro case, i megafoni posizionati ovunque nella città scandiscono con voce metallica l’ordine di rimanere nelle proprie abitazioni e di non uscire in strada per nessun motivo. Ma gli abitanti, venuti così a conoscenza della marcia dell’esercito verso la piazza, bloccano l’avanzata riversandosi nelle strade di Pechino. È un gesto di solidarietà verso i manifestanti. Le barricate cominciano a spuntare qua e là lungo le vie principali che conducono a Tienanmen. È qui, proprio qui, lungo l’arteria principale chiamata Chang’a, che il Rivoltoso Sconosciuto (proprio lui, quello della foto iconica di inizio articolo) si ferma davanti ai carri armati per bloccargli il passaggio.
Gli abitanti di Pechino stanno rallentando l’avanzata dell’esercito con pietre e molotov, mentre questi cominciano a sparare sulla folla, aprendosi un varco fra le barricate e camminando sui cadaveri dei loro compatrioti. Attenzione però: nel logorante cammino dell’esercito non muoiono soltanto civili. È un massacro da entrambi i fronti. La violenza dei militari è provocata proprio dalla morte di alcuni di essi, che vengono bruciati vivi nei mezzi corazzati dati alle fiamme, impiccati ai pali della luce, picchiati a morte. Disperati per il fatto di non riuscire a passare ma consci degli ordini da eseguire, i militari scelgono la via più brutale: fuoco a prima vista. I cittadini che sbarrano la strada vengono letteralmente sterminati nel giro di qualche ora.
Nel frattempo, in piazza, c’è il panico. Il dibattito adesso non riguarda più lo sciopero della fame o l’innalzamento di un fantoccio di cartapesta. I cittadini stanno morendo. Da lontano, i colpi di fucile e i fumi dei gas lacrimogeni raggiungono gli sguardi terrorizzati dei giovani che, a questo punto, devono decidere se ritirarsi pacificamente o rimanere ancorati ai gradini della piazza, e affrontare la morte a testa alta.
Arriva la sera, e arriva anche l’esercito.
L’ordine di Deng Xiaoping è tassativo: non sparate, ma sgomberate la piazza entro le sei del mattino. Ma come si fa a sgomberare un luogo da persone che non vogliono andarsene? Non si fa. Si usa la forza. Xiaoping sa benissimo di aver dato un ordine-contrordine, e i generali militari non si fanno alcuno scrupolo morale. I corazzati si allineano nelle strade antistanti la piazza, sparando arbitrariamente avanti, indietro, ai lati. È fuoco indiscriminato. Contemporaneamente, i soldati cinesi entrano nella piazza con fucili d’assalto e sparano in mezzo alla folla, alla cieca. Gli studenti cercano riparo nei pullman, ma vengono trascinati fuori, picchiati e percossi finché non perdono conoscenza. La brutalità e la violenza delle forze armate getta la situazione nel caos, i manifestanti si disperdono, la notte inghiotte le urla delle vittime e in pochi minuti la piazza viene rasa al suolo.
Verso le quattro del mattino del 4 giugno i carri armati entrano nella piazza, schiacciano veicoli e persone. Nelle strade, le troupe televisive raccolgono sbigottiti e traumatizzati queste immagini sadiche; una telecamera della BBC inquadra per brevi istanti un ragazzo che urla “ditelo al mondo!” prima di essere fucilato alla nuca.
Alle 5:40 del mattino del 4 Giugno 1989, Piazza Tienanmen è sgomberata e seminata di cadaveri. Le stime reali delle vittime ancora non si sanno, e forse non si sapranno mai. C’è chi dice centinaia di persone, chi ipotizza molte di più. Un fatto solo è certo: di quella terrificante notte non se ne può parlare, nemmeno oggi.
Dopo Tienanmen, solo censura
Il resto non è difficile da immaginare. Il mondo è scioccato. Il popolo cinese indignato. Deng Xiaoping tiene pochi giorni dopo un discorso-farsa dove descrive i militari caduti come martiri, e gli studenti come terroristi. Ripreso il controllo della piazza, il governo cinese riottiene il controllo della città di Pechino in una settimana, e segue una grande purga politica a cui dedicherò una sola frase: i leader della protesta vengono arrestati e torturati mentre i capi militari applauditi e decorati.
Arriviamo all’oggi. Per quanto riguarda le proteste di piazza Tienanmen il Partito ha vietato qualsiasi tipo di commemorazione. Non se ne può neanche parlare. Ogni minimo accenno all’accaduto finisce nella censura. Il governo cinese ha costretto Apple Music a rimuovere tutte le canzoni che fanno riferimento alle dimostrazioni degli studenti, gli account social dei familiari delle vittime negli ultimi anni sono stati periodicamente disattivati, persino alcune emoji sono state messe al bando. Il 2019 era l’anno in cui ricorreva il trentesimo anniversario dalla tragedia, e il governo cinese ha intensificato i controlli su Internet, rendendo impossibile la condivisione di qualsiasi contenuto sulle proteste: l’emoji della torta con le candeline accese e il numero “30” sono stati tolti per diversi giorni da ogni sistema operativo che si trovava in territorio cinese.
La censura, in Cina, è micidiale. Non lascia alcuno spazio all’interpretazione: i fatti di Tienanmen non sono mai avvenuti, e comunque non se ne deve parlare. È, nella sostanza, una ricorrenza che il governo cinese non vuole ricordare, e che si ripercuote ogni anno sui cittadini. Questo la dice lunga sulla Cina, sul governo cinese, e sulla libertà di pensiero e opinione che citavo a inizio articolo.
Nelle settimane che chiudono il 2021 tre università a Hong Kong sono state costrette a rimuovere le statue che commemoravano la strage. La paura delle ripercussioni cinesi ha fatto immediatamente togliere dalle strade e dai luoghi di memoria alcune delle opere più significative riguardo quella vicenda. Anche su Hong Kong ci sarà bisogno di scrivere qualcosa, prima o poi (più prima che poi perché la vicenda è sempre più calda), ma intanto qui mi limito a dirvi che in questo territorio cinese semi-autonomo la libertà è stata man mano ristretta negli ultimi tempi. La repressione sistematica al dissenso politico arriva a imporre, tra le altre cose, ogni riferimento e commemorazione della strage, proprio come avviene nel resto della Cina. Particolarmente toccante è la rimozione della statua nota come Pilastro della vergogna. L’ha realizzata lo scultore danese Jens Galschiøt nel 1997 e, a guardarla, è davvero creepy. Ma deve esserlo, perché ritrae quelle che erano le espressioni furenti e agonizzanti dei manifestanti nel 1989.
Di tutte queste informazioni, e di ciò che è avvenuto, siete liberi di pensarla come vi pare. I fatti che racconto sono pochi, sintetici, infondo incompleti. E solo per dare un’idea, non costituiscono metro e misura di un giudizio universale. Io mi sono limitata a raccontare la vicenda nel modo più onesto possibile, mettendo insieme quello che si sa. Per le considerazioni e gli eventuali dibattiti filosofici, fate vobis.
Perchè ci riguarda?
Nel caso a qualcuno venisse in mente di dire: e a noi…? Ce ne frega, ce ne frega. Ci riguarda. È la storia di una notte che in tanti vogliono dimenticare. Storia di un’atrocità che viene fatta con e nonostante la nostra indignazione. Possiamo anche voltarci da un’altra parte, e continuare a pensare: ma tanto si sa che in Cina non c’è libertà. Come però cantava De André: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti»