In Afghanistan il disastro era chiaro già vent’anni fa. Un Paese prigioniero, inghiottito dentro una palla di cristallo dalle tinte sanguinarie. Ogni profezia si è infine avverata
(Qui c’è la parte 1 e la parte 2)
Le Torri Gemelle che cambiano tutto
È l’11 Settembre 2001. Crollano le Twin Towers: America under Attack. Gli Stati Uniti e il loro Presidente, George Bush (quello Junior), devono decidere come reagire. Nel giro di poco tempo viene elaborata la cosiddetta Dottrina Bush della guerra preventiva. In sostanza, gli Stati Uniti non avrebbero più atteso attacchi dei nemici, ma avrebbero usato tutta la loro potenza militare per prevenirli. George Bush dichiara guerra al terrorismo e, nello sconforto delle istituzioni internazionali, si prepara ad invadere quel Paese che i suoi Marines conoscevano già molto bene dopo la Prima Guerra del Golfo. L’Iraq.
Ma c’entra l’Iraq con i mujaheddin suicidi (peraltro prevalentemente egiziani) che hanno dirottato due aerei? Ancora oggi è difficile dirlo. E infatti, passano pochi giorni prima che Osama Bin Laden, capo di Al-Qāʿida, rivendica l’attacco alle Torri Gemelle. Ma Osama sta in Afghanistan. Ora, l’Afghanistan e Iraq non sono lo stesso Paese, e nemmeno stanno troppo vicini, visto che di mezzo c’è l’immenso Iran. Ma forse agli Stati Uniti di Bush non importano i confini, né le distanze. Così, mentre i marines si dirigono in Iraq, migliaia di soldati armati fino ai denti vengono inviati in Afghanistan. Una spedizione vittoriosa? Sì e no. O meglio: subito sì, e poi no. Vediamone i passaggi principali.
Dal 2001 al 2021, in date importanti
Il 7 dicembre 2001 il regime dei talebani crolla. Vuoi perché le bombe statunitensi sono nettamente predominanti in quanto a gettata e potenza rispetto alle modestissime capacità di difesa dello Stato Islamico, vuoi perché i marines sono assai più performanti e armati dei guerriglieri afgani, o vuoi anche perché gli Stati Uniti vivono nel 3000 se paragonati alle condizioni di vita afgane… Insomma, non solo i Taliban ma anche i più attrezzati terroristi di Al-Qāʿida, ospiti permanenti del Paese, rimangono con le spalle scoperte. Molti scappano, tanti vengono catturati e uccisi, altri cercano asilo in Pakistan, alcuni si suicidano e tanti altri si nascondo nelle zone più remote del Paese. Inizia la caccia all’uomo nel deserto, con i bunker sotterranei e le strade polverose che vediamo in film come American Sniper (che però parla dell’Iraq, ma comunque non differisce troppo dall’occupazione statunitense in Afghanistan).
Il 1 maggio 2003 Bush annuncia che l’operazione militare in Afghanistan aveva raggiunto il proprio obiettivo. Ora, quale fosse questo obiettivo, non era molto chiaro. La distruzione di Al-Qāʿida? Bah, il capo di Al-Qāʿida, Osama Bin Laden, rimane vivo e vegeto in Pakistan fino al 2011, quando l’amministrazione Obama lo intercetta e uccide. Forse l’obiettivo di Bush era annientare il terrorismo islamico? Non saprei, sarà anche vero che negli Stati Uniti le stragi delle cellule silenti si fermano, ma comunque c’è sempre qualche pazzo che imbraccia il fucile e spara sulla folla in una scuola o in un centro commerciale, in America. Inoltre, solo perché il terrorismo islamico si ferma “in Occidente”, non significa che s’arresti del tutto (peraltro, avvengono molti attentati in Europa). Intanto continuano le stragi, per esempio al mercato, in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq, ecc. Episodi sanguinari che non hanno mai smesso di produrre morti e feriti, anche dopo che l’America aveva “raggiunto il proprio obiettivo”.
Dal 2003 al 2011 i soldati statunitensi agiscono indiscriminatamente. Da Herat a Kabul i bombardamenti, gli incendi e le fucilazioni sono solo la cornice delle attività quotidiane dei marines. Ciò che il corpo militare statunitense ha commesso davvero in Afghanistan non è l’argomento principale di questo articolo ma, anche volendo, si tratta di informazioni riservate e secretate che non ci è dato conoscere. L’Afghanistan diventa il Paese distrutto e maltenuto che conosciamo nelle fotografie e nei racconti di Hosseini, e le cose non migliorano con la presidenza Obama.
Dal 2011 al 2015 le truppe Usa si ritirano, dapprima gradualmente e poi di corsa, passando da 100mila a 8mila soldati nel giro di quattro anni. Obama richiama a sé i suoi marines senza concludere alcun accordo con il governo afgano – utile in quel momento quanto un cerotto per chiudere una crepa nel muro -, né peraltro con i talebani, ancora armati e sempre più insofferenti della presenza americana nella loro terra non più così religiosa. Inutile dirlo, ma le cose stavano per peggiorare ulteriormente sotto l’amministrazione di Donald Trump.
Dal 2015 al 2018 i talebani, infatti, iniziano le loro guerriglie locali contro il governo centrale afghano, che in quel momento si reggeva in piedi grazie all’appoggio statunitense e a un esercito armato da armi di buona fattura. Gli attentati riprendono, si combatte fra le strade e nelle campagne. I civili, già dilaniati da una povertà disarmante e una miseria sociale spaventosa, guardano impotenti il loro Afghanistan diventare un teatro di orrori, errori, sangue e distruzione.
Dal ritiro delle truppe in avanti, è solo un disastro
Siamo al 2019, e il nuovo presidente Trump non ha alcuna intenzione di rimanere in Afghanistan. Esattamente come il suo predecessore, Obama, continua il ritiro delle truppe. D’altronde non c’è più alcun motivo di continuare la guerra al terrorismo. Bin Laden è morto, negli Usa la situazione “musulmana” è sotto controllo, e in Afghanistan non c’è più nulla d’interessante da fare. Però Donald è più furbo di Barack, almeno da un punto di vista tattico. Non si lascia l’Afghanistan così, di punto in bianco, senza dire nulla a nessuno. È un’invasione che gli Stati Uniti portavano avanti da vent’anni, e una spiegazione bisogna darla, quantomeno al mondo occidentale. I leader talebani, decisamente più credibili di quel fantoccio governativo afgano che gli Stati Uniti avevano messo lì per legittimare ogni loro azione militare, vengono avvertiti del ritiro completo delle truppe statunitensi con larghissimo anticipo. Il 28 gennaio 2019 Trump rilascia gli atti formali per il ritorno a casa dei suoi soldati, con la data di ultimazione già fissata: il 2021.
E con quale fiducia gli Stati Uniti lasciano l’Afghanistan? Con il patto, non scritto ma vincolato dal rapporto ventennale che i due Paesi avevano vissuto fino ad allora, di non lasciare che i gruppi terroristici usassero il territorio afgano come base per pianificare attentati contro gli Stati Uniti. Embè, avete capito? Gli Stati Uniti voltano le spalle agli afgani “democratici” e aprono le porte al ritorno dei talebani sanguinari; nessuna ricostruzione per un Paese distrutto e dissanguato, tutto viene lasciato alla mercé di chi vorrà. In altre parole: noi ce ne andiamo, voi fate un po’ come vi pare, basta che non venite nella nostra casa a stelle e strisce. Mentre il mondo misurava la propria temperatura a botte di tamponi contro il Covid-19, nel febbraio del 2020, a Doha, in Qatar, il capo dei negoziatori statunitensi Khalizad e il leader dei talebani Barar firmano l’accordo. È ufficiale, gli Stati Uniti se ne vanno. Non che prima la situazione fosse chiara e luminosa in Afghanistan, ma da quel momento in poi tutto il Paese piomberà in un buio senza precedenti, fatto di promesse non mantenute e, come dicevo prima, disastri già dichiarati vent’anni prima.
Nell’aprile del 2021 Biden rispetta l’accordo firmato dal suo predecessore, e fissa il termine di ritiro delle truppe all’11 settembre 2021. Il ventesimo anniversario degli attentati di Al-Qāʿida. La data è naturalmente scelta per fare audience. Da quell’aprile in poi i talebani avviano una campagna militare di riconquista del paese. Le milizie talebane possono contare sulle armi dell’esercito americano rimaste sul territorio, e questo è un fatto acclarato, ma forse anche da qualche gentlemen’s agreements di cui non sappiamo nulla. Sono rese forti dal ritiro dei “nemici”, arrivano a Kabul rapidamente e senza contrasti. Hanno vita facile, anche perché i militari dell’esercito afgano sono di fatto degli incapaci, totalmente impreparati alla guerra e non hanno l’appoggio né del popolo né del governo stesso che li finanzia. Il loro morale è sotto terra. Quella dei talebani è una veloce, progressiva e non ostacolata incursione fino a Kabul. Il presidente Ashraf Ghani, burattino degli Stati Uniti, fugge gambe in spalla. L’evacuazione degli stranieri si mostra in tutta la sua cruenta verità. Sono le immagini che ci sono passate davanti agli occhi in quell’agosto 2021; gli aerei presi d’assalto, i civili terrorizzati, le madri che lanciano i propri figli oltre i recinti di filo spinato.
Ci siamo arrivati: l’Afghanistan oggi
Da allora le notizie che abbiamo sull’Afghanistan sono, come dicevo prima, buie. I talebani hanno sì rispettato gli accordi con gli Stati Uniti, perché non si è sentito di alcun attacco terroristico in America dalla presa di potere dei talebani in Afghanistan, ma hanno riportato il Paese all’epoca terrificante degli anni Novanta. Le donne sono di nuovo delle nullità, le bambine e le ragazze sono escluse dalla scuola, le punizione pubbliche terrorizzano di nuovo la popolazione e la crisi umanitaria continua. Per poter sopravvivere nell’economia moderna, ma anche per legittimare il loro potere, i talebani devono stringere accordi con i Paesi vicini, ma anche con i Paesi occidentali. Non è chiaro se e in che misura stia avvenendo, certo le coltivazioni di papavero da oppio che l’Occidente voleva estirpare crescono oggi rigogliose. In ogni caso, le opinioni pubbliche internazionali potrebbero non essere entusiaste di vedere i propri Stati stringere accordi con un Paese che va avanti a lapidazioni, mutilazioni ed esecuzioni pubbliche. Nel frattempo, pochi mesi fa, il Pakistan ha iniziato ad espellere dai propri territori gli afgani che lì vivono illegalmente. A nulla servono le protezioni umanitarie: gli afgani sono costretti a tornare in Afghanistan e il loro rimpatrio forzato produce una grande alzata di spalle da parte di tutti. Ah no, aspettate. I Paesi occidentali hanno usato il blocco dei finanziamenti come strumento per esercitare pressioni sul governo talebano. Non serve che io sottolinei quanto questa cosa sia interessata ai talebani, che nel frattempo hanno vietato alle donne di frequentare i parchi pubblici e agli uomini di ascoltare la radio in macchina.
In Afghanistan sono tornati al 1996, e il mondo ha voltato pagina. Per il popolo afgano l’irruzione militare Usa non è stata che una sanguinaria parentesi all’interno di una fase storica di violenta oppressione religiosa. Per gli Stati Uniti l’invasione in Afghanistan non è stata altro che una mossa di politica estera messa in atto contro un già amico diventato nemico poi ridiventato amico, trasformato infine in soggetto a cui essere olimpicamente indifferenti. L’Afghanistan è sempre quello di Mille Splendidi Soli e, fra le righe di una storia che sembra essere finita nel nulla di fatto, si può leggere la curiosa tendenza americana di invadere, conquistare, distruggere, scappare e dimenticare.
E a noi?
Nel caso a qualcuno venisse in mente di dire: e a noi…? Ce ne frega, ce ne frega. Ci riguarda. Siamo noi ad aver attaccato e dimenticato l’Afghanistan. I talebani li abbiamo armati e legittimati noi. Possiamo anche voltarci da un’altra parte, e continuare a pensare: ma tanto l’Afghanistan è lontano, povero e inutile. Come però cantava De André: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti».