In Afghanistan il disastro era chiaro già vent’anni fa. Un Paese prigioniero, inghiottito dentro una palla di cristallo dalle tinte sanguinarie. Ogni profezia si è infine avverata
(Qui c’è la parte 1)
Afghanistan fra monarchia e repubblica
Dove eravamo rimasti? Ah si.
Mentre il Paese riprende il controllo della propria politica estera, stringendo quindi accordi con Paesi forti e importanti, inizia a dilagare anche il malcontento fra la popolazione. Il Re (che nel 1919 si chiamava Amanullah Khan) non è più una figurata amata, ed è costretto ad abdicare nel ’29 dopo un’insurrezione armata. Il suo successore, Mohammed Shah viene assassinato a Kabul nel 1933 e il di lui figlio, che si chiamava anche lui Mohammed Shah, gli succede al trono fino al 1973. Sono cinquant’anni di insperata stabilità, giocata anche sulla neutralità dell’Afghanistan durante il secondo conflitto mondiale e sulla – almeno de facto – indifferenza ai blocchi di potere durante la Guerra Fredda. Questo va detto: per cinquant’anni l’Afghanistan è stata una terra piuttosto dimenticata, una sorta di zona grigia che viveva la sua quotidianità senza alcun interesse per il mondo esterno. D’altro canto, anche il mondo era impegnato a fare altro, e non si curava più di tanto di quel che facevano i re afgani.
Comunque, mentre noi eravamo impegnati a farci la Guerra Fredda, il cugino del re, Mohammed Khan (sì, si chiamano tutti Mohammed, ma almeno lui ha un cognome diverso) organizza un golpe e mette fine alla monarchia afgana. D’altronde un cugino non ha alcuna rilevanza nella successione dinastica, quindi il golpe non poteva che essergli di beneficio. Nasce la prima repubblica afgana, a sua volta rovesciata da un colpo di Stato nel ’78, a favore della nascita di una Repubblica Democratica, guidata da Mohammad Taraki. So che sto facendo degli enormi salti culturali, come so che è difficile immaginarsi le parole “repubblica” e “democratica” quando si parla di Afghanistan. Però è così. Prima del 1979 l’Afghanistan aveva certamente i suoi problemi, ma non era la realtà che conosciamo. I servizi sociali funzionavano, i matrimoni forzati non esistevano, le leggi tradizionali e religiose non avevano il potere che hanno oggi. Le donne studiavano, indossavano le minigonne e si acconciavano i capelli come volevano. Tutto ciò, inutile dirlo, si scontrava fortemente con le autorità religiose locali e tribali. D’altronde, il governo di Taraki non era nemmeno troppo indulgente verso gli oppositori: furono migliaia le esecuzioni politiche contro chi era contrario alle riforme.
L’invasione sovietica, i mujaheddin e i terrificanti talebani
Arriviamo al 1979. L’URSS, che si era sì defilato insieme all’impero britannico sul finire dell’Ottocento, ma che aveva comunque osservato silenziosamente tutto il gran daffare afgano dei successivi cento anni, viene allertato da un fatto accaduto nel settembre del ’79. Questo fatto ha cambiato completamente le sorti afgane. Taraki viene assassinato, su ordine del suo vice primo ministro Amin. Fin qui niente di nuovo, come abbiamo già visto l’Afghanistan è una terra dove i fedelissimi di un re, di un leader o comunque di un capo di governo, non si fanno tanti scrupoli ad uccidere chi gli sta sopra e a occuparne il posto. Ma l’Unione Sovietica, che guardava con un certo interesse tutte le politiche riformiste di Taraki, non ama la figura di Amin. In primo luogo non gli garba che un vice primo ministro ordini l’assassinio del suo capo, e poi non gli sta neanche troppo bene che questo vice abbia dei rapporti – fondati o sospetti – con la CIA. Inutile dirlo, ma lo spionaggio USA-URSS andava forte in quegli anni. Breznev, Segretario generale del Partito comunista e dunque capo supremo della Russia sovietica, manda i carri armati a Kabul il 27 dicembre 1979 e inizia una lunga e cruenta guerra con i mujaheddin. Ora, per raccontarvi chi sono i mujaheddin mi occorrerebbero altri tre paragrafi, ma è indispensabile per me quantomeno riassumerli, per quanto possibile. Non possiamo procedere in questa storia senza dedicare almeno due righe a questi “soldati”.
Possiamo definirli dei gruppi “ribelli”, antagonisti di diverse forme di governo, finanziati in primo luogo dagli Stati Uniti e poi da tutti quelli che hanno degli interessi economici in Afghanistan. Noti ai mass-media come guerrieri armati che s’ispirano alla religione islamica, sono diventati famosi qui in occidente per varie e svariate azioni di guerra feroci, violente e sanguinose. Certo è, che ai Sovietici non importava niente di come combattevano i mujaheddin, né di quale fosse il loro credo. Quando l’URSS entra in Afghanistan i mujaheddin sono finanziati dagli Stati Uniti d’America, e questo basta e avanza come motivazione a combatterli. Va peraltro aggiunto che questi mujaheddin non sono solo afgani: arrivano da tutto l’oriente islamico, in particolar modo dall’Arabia Saudita (tra loro c’è anche Osama Bin Laden).
Arriva il 1989. Cade l’Unione Sovietica. Molto più impegnati a stabilire un ordine nei propri confini interni, l’Armata Rossa se ne va, lasciando l’Afghanistan in mano ai mujaheddin, a vari governi di natura e legittimità incerta e, soprattutto, ai talebani, cioè il gruppo etnico maggioritario dell’Afghanistan. In questa cornice s’inserisce Laila, la protagonista più giovane del libro Mille Splendidi Soli. Laila nasce nel 1978, quando l’Unione Sovietica arriva in Afghanistan e, almeno per le strade, si contrappone ai mujaheddin e alle leggi religiose che i talebani porteranno negli anni a venire. La vita di Laila viene stravolta nel momento in cui i russi se ne vanno, e i talebani si appropriano in modo paranoico del controllo quotidiano di tutta la vita.
Sarà anche un commento di parte, o una considerazione fuori luogo, ma mi sento di scriverla così come la penso. In fatto di idee e di messa in atto delle stesse, i talebani sono il peggio del peggio. Dal 1992 al 2001 e poi dal 2021 ad oggi, hanno incarnato l’ideale politico-religioso più oppressivo del mondo, imponendo un tribalismo barbarico, fatto di costrizioni, regole folli, rigidissima separazione di genere e violenza su donne e bambine. Sono i fondamenti sociali, culturali, economici e giuridici dello Stato Islamico d’Afghanistan. Si apre un decennio terrificante per il popolo afghano. O meglio, per il popolo afghano che si riconosce in quanto “libero pensatore”. Sono gli anni delle fustigazioni pubbliche, dei matrimoni combinati, dello scambio di bambini per tornaconti economici. E poi ancora, anni in cui le donne diventano merce, nullità come soggetti sociali, confinate nelle case. Sono gli anni della shari’a, la legge islamica. In parole povere, e probabilmente anche un po’ romanzate nella loro concezione, in Afghanistan comanda il bene e viene punito il male. Si susseguono indiscriminatamente amputazioni delle mani per chi ruba, lapidazioni per chi va a letto con un uomo diverso dal proprio marito, chiusura di tutte le trasmissioni televisive. La polizia religiosa reprime chi si rade la barba troppo corta, chi ascolta musica occidentale, chi non prega. So che la storia non è una scacchiera dove giusto e sbagliato hanno confini così netti e delineati ma, almeno nell’Afghanistan degli anni Novanta, ci si avvicina moltissimo.
Non mi dilungo ulteriormente su questo pezzo di storia perché, sebbene sia importante per capire cosa accadde dopo il 2001, si tratta di una storia sì agghiacciante, ma già nota, a cui nessuna Istituzione o organizzazione internazionale dei Diritti verso l’Uomo ha avuto la forza o la possibilità di contrapporsi. Tranne, gli Stati Uniti d’America. I quali però, ma non lo ammetteranno mai, non avevano il cuore impietosito dalla vita misera che gli afgani erano costretti a condurre, ma erano mossi da ben altre motivazioni, molto più complesse.