Operazione Condor – dittatura fa rima con tortura Pt. 2

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Questa è una storia intessuta nel sangue di migliaia di storie, tutte avvenute e mai raccontate. “Operazione Condor” è un articolo faticoso da scrivere e da leggere, ma bisogna scriverlo e bisogna leggerlo. Spiega come sei dittature, con un numero imprecisato di polizie nazionali e servizi segreti, abbiano massacro intere generazioni di cittadini. E segnato forse per sempre l’America Latina.

(Qui c’è la parte 1)

Per decenni anziani padri e madri hanno cercato i loro figli invano. Molti non hanno mai saputo come e perché il loro figlio, magari studente di filosofia, da un giorno all’altro fosse sparito nel nulla. Invece, per fortuna o per disgrazia, dopo l’apertura degli Archivi del Terrore nel 1992, moltissime famiglie hanno conosciuto l’orrore che vent’anni prima i loro cari avevano subito, durante la famigerata Operazione Condor. Conosciuto con particolari che forse avrebbero preferito non conoscere. Solo per citare un fatto piuttosto noto, nel Cile di Pinochet erano arrivati militari da tutto il Sud America esperti in tecniche di rapimento, incarcerazione e tortura degli oppositori. La caccia agli oppositori non aveva confini: poliziotti argentini agivano in Uruguay, agenti boliviani in Cile, cileni in Paraguay e così via. Uccidevano e torturavano e poi nascondevano o bruciavano i corpi. Nella triste e famigerata base militare Campo de Mayo, Argentina, sono state rinchiuse 5 mila persone, ne sono rimaste vive 43. Da questa base partivano i Voli della Morte, cioè degli aerei dentro cui donne e uomini venivano prima drogati e poi gettati vivi nell’Oceano. Tutti i militari presenti sull’aereo dovevano prendere parte all’operazione e una volta tornati alla base, trovavano ad aspettarli i cappellani militari che davano loro l’assoluzione. Spiace dirlo, ma purtroppo è risultato che anche la Chiesa aveva le mani in pasta fino ai gomiti.

Ultima nota dell’orrore? A Campo de Mayo c’era anche un ospedale militare. Lì venivano fatte partorire le detenute politiche stuprate dagli aguzzini. I loro neonati venivano presi e dati in adozione a chissà chi, in alcuni casi proprio alle mogli dei torturatori (come è emerso). Nei decenni dell’Operazione Condor ci sono stati violenze di un livello quasi incomprensibile, malato verrebbe da dire, anche con scariche elettriche, waterboarding, pestaggi e sadismi di ogni tipo.

La storia di Martin Almada è la storia di migliaia di altri

Vi ricordate Almada? L’avvocato che nel ’92 ha aperto l’Archivio? Ecco, la fine della dittatura in Paraguay nell’89 ha consentito a uno come lui di fornire i documenti necessari per processare e condannare gli uomini della giunta militare paraguaiana. La scoperta di quegli archivi gli hanno fornito le prove di cui aveva bisogno, oltre che la straniante esperienza di rileggere la storia dal punto di vista dei suoi stessi aguzzini. Sì, perché Almada era stato a sua volta una delle vittime – uno dei pochi a essere sopravvissuto- dell’Operazione Condor. Riga dopo riga, i suoi occhi scorrevano dettagli sconvolgenti. Io farò del mio meglio per spiegarvi cosa significa essere rapiti e torturati da persone addestrate a farlo e autorizzate dallo Stato stesso. Vediamo brevemente la sua storia personale.

Almada era un giovane avvocato paraguayano, appena tornato a Montevideo dall’Argentina, dove aveva conseguito un master con una tesi sul sistema scolastico del Paraguay: un sistema vecchio e conservatore, che voleva gli studenti ignoranti e inconsapevoli. È il 1974 e Almada viene arrestato non appena mette piede in terra paraguaiana. D’altronde, il suo Paese è sotto dittatura da circa vent’anni e lui è sempre stato uno studente piuttosto riottoso e ostile al regime. Accusato di aver preso parte a organizzazioni sovversive, gli intimano di collaborare con la polizia e, di fronte al suo rifiuto, iniziano gli interrogatori.

Interrogatori? Diciamo trenta giorni di torture. I metodi con cui cercarono di farlo confessare sono raccolti nel suo libro “Paraguay, il carcere dimenticato”, e vengono descritti nelle loro particolarità scientifiche e creative. Per dare un chiaro esempio di quanto fossero specializzati i torturatori dell’Operazione Condor, basta far riferimento agli strumenti che usavano, nonché ai nomi in codice che gli avevano dato; i manganelli erano chiamati “democrazia”, i grossi aghi per i prelievi erano “i Generali Stroessner”, la pratica di immergere le vittime in una vasca piena di acqua, urina ed escrementi era chiamata “diritti umani”.

Una volta rinchiuso in cella, Almada viene accusato di “terrorismo intellettuale” perché aveva insegnato agli altri detenuti a leggere, e venne quindi spedito in un campo di concentramento nel mezzo della Foresta Amazzonica. Rimane imprigionato per tre anni, finché una mobilitazione internazionale solleva il suo caso, cosa raramente utile ma per fortuna lui riesce a essere esiliato, quindi portato in salvo. Resta in esilio fino al 1989, anno in cui il regime di Stroessner viene sostituito da un governo democratico.

Che ne è stato dei torturatori dell’Operazione Condor?

Molti sono morti di cause naturali, molti no. Molti si sono uccisi una volta finiti i regimi dittatoriali sotto cui operavano, molti ancora hanno cambiato vita, nazione, taglio di capelli e adesso forse vendono arance in qualche chiringuito sulle spiagge Giamaicane. Ma molti, anche grazie a quei maledetti (però utilissimi) Archivi del Terrore, sono stati trovati e trascinati in tribunale. Nel corso dei decenni successivi, anzi, fino ad oggi, i responsabili dell’Operazione Condor sono stati condannati in vari processi intercontinentali. In qualche misura, i tribunali li hanno condannati per crimini contro l’umanità, tortura e omicidio, anche se forse non c’è giurisdizione tanto imponente da poter scrivere un decalogo per tutte le barbarie commesse.

Ce n’è uno, però, di torturatore, che sta sfuggendo alla condanna da molti anni. Mato Narbondo, di origine italiana, detto “el burro” (ndr così chiamato per la resistenza fisica e psicologica dimostrata nel torturare le vittime) ha buone probabilità di sfuggire all’estradizione, e quindi di non essere processato affatto. Fino ad oggi non ha fatto un giorno di carcere, e c’è la tragica possibilità che non ne faccia mai. Vive in Brasile, dove nel 2003 ha ottenuto la cittadinanza, protetto dall’articolo 5 della Costituzione che impedisce l’estradizione di un cittadino brasiliano in un altro Stato. Dura lex, sed lex. Non so quale cavillo burocratico l’Italia troverà per portare Narbondo nella penisola, ma una schiera di giudici e avvocati ci lavora nottetempo.

Conclusioni

Posso dire che questo articolo è stato per me faticoso: la mole delle informazioni è tanta, l’emotività è alta, a seguire le vicende personali si rischia di perdere di vista il tema generale, a schivarle ci si sente aridi. Spero di essere riuscita a trasmettere il senso generale, senza trascurare l’elemento umano. C’è un’altra cosa che mi consola. In un momento in cui spirano strani venti di guerra a un tiro di schioppo dall’Europa – vedi Ucraina – torna questa volta in chiave russa la questione del “cortile di casa”. Neanche Mosca vuole avere dei non-amici ai propri confini. Speriamo che non ne venga fuori un’altra Operazione Condor.

Perchè ci riguarda?

Nel caso a qualcuno venisse in mente di dire: e a noi…? Ce ne frega, ce ne frega. Ci riguarda. È una storia che proprio per la sua natura agghiacciante non viene mai raccontata, e che sembra aver trovato, forse, una forma di giustizia, quantomeno intellettuale. È il racconto narrato di vent’anni di oscurità in cui hanno perso la vita e la speranza migliaia di individui. Possiamo anche voltarci da un’altra parte, e continuare a pensare: si vabbè, comunque è passato. Come però cantava De André: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti».