Rwanda. Il genocidio nel cuore dell’Africa nera. Tutto ciò che è accaduto prima e dopo la mattanza spiegato ai Millennial che non hanno ancora visto “Hotel Rwanda”. O che l’hanno visto, ma non l’hanno capito bene.
(Qui c’è la parte 1)
Il giorno in cui inizia il genocidio
Il 6 aprile 1994, l’aereo che trasportava il presidente e dittatore Juvenal Habyarimana, al potere da 19 anni e di dichiarata etnia Hutu, viene abbattuto da un razzo. L’abbattimento dell’aereo e la morte del presidente, nonché di Cyprien Ntaryamira, capo di Stato del Burundi che viaggiava insieme al dittatore del Rwanda, ha dato inizio al genocidio. Per molti è stato un pretesto, per molti la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’intolleranza fra i due gruppi. Accusati di essere i responsabili dell’attentato, i Tutsi sono stati vittima di una serie di massacri sanguinosi e indiscriminati da parte del governo. Dal 7 aprile alla metà di luglio, cioè in poco più di cento giorni, vengono uccise almeno un milione di persone. C’è chi dice 800 mila, chi è convinto che siano invece molte di più. Parliamo di vere e proprie carneficine a colpi di machete, migliaia di stupri, abusi, soprusi e bambini arruolati come soldati e obbligati a torturare e uccidere i propri genitori. Se c’è un’immagine che dipinge l’inferno nella sua forma più cruda, questa è il Rwanda nel luglio del 1994. Si scoprì solo dopo che il governo ruandese aveva pianificato il massacro tempo addietro, e che circolavano già liste ben precise che indicavano chi uccidere e chi no. D’altronde, le carte d’identità specificavano chi fosse Hutu e chi Tutsi – sebbene nel massacro sono morti anche moltissimi Hutu appartenenti al gruppo dei “meno radicali”, cioè i più tolleranti di fronte alle discrepanze fra le due etnie.
E in tutto questo che c’entra il Belgio? E la Francia?
Proviamo a dirlo in modo semplice e sintetico. Per anni il Rwanda ha accusato le truppe francesi di aver preso parte al massacro dei Tutsi, e di aver fornito armi alle milizie che avevano partecipato al massacro. Ma insieme a loro, un altro grande soggetto universale si è reso complice del genocidio. La Chiesa Cattolica – o quantomeno i suoi rappresentanti locali – ha permesso che venissero massacrate le persone rifugiate nelle chiese. Nel tragico agosto del 1994, di fronte allo sguardo omissivo dei sacerdoti, nella chiesa di Ntarama vengono massacrate più di 5 mila persone. In molti casi oggi sono noti anche i nomi dei preti responsabili, processati poi dai tribunali internazionali. Don Athanase Seromba ha fatto abbattere la sua chiesa dalle milizie proprio mentre 2 mila Tutsi vi avevano cercato rifugio. Le ragioni della collaborazione della Chiesa cattolica? La rivalità fra il clero locale e la classe dirigente. Motivazioni fallaci, orgogliose, infantili se si vuole. Di potere, in ogni caso. l’accaduto rimane, ed è aggravato dal fatto che la Chiesa non ha voluto riconoscere il genocidio fino al 2017, anno in cui Papa Francesco ha chiesto pubblicamente perdono ai Tutsi, al Rwanda, e a Dio per i crimini commessi. Il Rwanda lo ha perdonato, i Tutsi sicuramente no, Dio chi lo sa.
Finisce il genocidio, inizia la dietrologia
A luglio le milizie Tutsi, guidate da Paul Kagame – figura che da allora assumerà sempre più potere e controllo all’interno del Paese – depongono il governo. Kagame diventa presidente provvisorio e viene poi eletto nel 2003 con democratiche elezioni. Il suo secondo mandato dura fino al 2017 e va riconosciuto che il suo partito vince con il 76% dei voti.
Poche cose rimangono chiare dell’inizio e della fine di questo massacro, ma le tesi che vivono la storia in modo lineare e ben definito fra colpevoli e innocenti non sono mai indice di verità assoluta. Tanto per iniziare, nel 2006, un’inchiesta francese condotta da Jean Louis Bruguière, famoso giudice dell’antiterrorismo d’Oltralpe, individua i mandanti dell’attentato all’aereo proprio in Paul Kagame e nel suo movimento. Ma nel 2012 i giudici subentrati a Bruguière, Marc Trévidic e Nathalie Poux, ribaltano l’intera tesi dopo nuovi accertamenti di tipo balistico che mettono tecnicamente in dubbio la possibilità, da parte dei Tutsi, di abbattere l’aereo. La nuova inchiesta colpevolizza invece gli estremisti Hutu, cioè le milizie dell’esercito Hutu contrari alla riconciliazione Rwanda-Burundi: ucciderne i presidenti avrebbe impedito la firma di accordi di pace. Ma non è finita. Nel 2014 il documentario “Rwanda Untold Story” trasmesso dalla BBC riporta in auge l’inchiesta di Bruguière, cioè quella che vede l’aereo abbattuto su ordine di Kagame. A confermare questa ipotesi sarebbero due importanti ex collaboratori dello stesso Kagame: due pentiti, diciamo italianamente. Di conseguenza, in questo immenso calderone scarica barile impastato di dietrologia e menzogne, sangue e inchieste senza fine, le testimonianze raccolte dalla BBC non forniscono una risposta definitiva ma pongono una domanda molto importante: è giusto attribuire a Kagame la meritoria fine del massacro, se fosse stato lui stesso a causarlo?
Il Rwanda dopo il genocidio è un Paese diviso in due
Il fatto è che, da allora, sono stati ricostruiti non uno ma due ben distinti Rwanda. O meglio, così pare. Celebrato o denigrato, il Rwanda è tuttora fonte di narrazioni opposte, da anglosassoni entusiasti a francofoni critici. Da una parte, il Rwanda come il Paese teatro di atroci violenze, dall’altro un Paese che Paul Kagame ha beneficamente rivoltato come un calzino. Un ping-pong di autorevoli commentatori internazionali, che esprimono pareri occupando il vuoto siderale delle Nazioni Unite. D’altronde, l’irrilevanza delle diplomazie Onu è ormai conclamata.
Ad oggi, la versione egemone sulla stampa internazionale è quella che mitizza il Rwanda e lo premia in una gigantografia che lo colloca ai vertici della performance africana: è un Paese sul podio, che stravince sui paesi limitrofi e detta alla stampa estera titoli come “Rwanda nuova Svizzera d’Africa” o “Rwanda come Singapore”. Sono parole che accrescono l’orgoglio patriottico e lo pongono sotto la luce che di solito si dedica alle dive. E, in effetti, la crescita economica del Rwanda è tutt’ora ineguagliata in Africa (circa il 7,4% dal 2000 al 2020), accompagnata da una digitalizzazione della vita, da sorprendenti innovazioni, e naturalmente tutti quei lussi e comodità che elevano un Paese, come il wi-fi gratuito, i droni, la copertura sanitaria universale, l’abbattimento della mortalità infantile. La rinascita del Rwanda vede come motore propulsore della sua fertilità un solo protagonista, Kagame. Proprio lui si è guadagnato una forte reputazione dentro e fuori dal continente. Proprio per non farsi mancare nulla, da diversi anni il brand turistico “Visit Rwanda” è sponsor dell’Arsenal, acclamata squadra del calcio inglese. Forse è proprio per questo che Paul Kagame era molto scocciato della sconfitta 2-0 di Arsenal VS Brentford il 13 agosto 2021 nella Premier League. In campo scendevano non solo i giocatori, ma anche interessi da milioni di sterline in fatto di turismo, sponsor e prestigio internazionale di cui il Rwanda ha un famelico e costante bisogno. Kagame è considerato una salvifica benedizione, nonché garante di una rivoluzione tecnologica incredibile per il Paese. Ha molti legami con quasi tutti i Paesi occidentali e, per farla breve, seduto lì, fa comodo a molti.
Ah, se solo non fosse per quelle accuse di autoritarismo e violazione dei diritti umani.