Rwanda. Il genocidio nel cuore dell’Africa nera. Tutto ciò che è accaduto prima e dopo la mattanza spiegato ai Millennial che non hanno ancora visto “Hotel Rwanda”. O che l’hanno visto, ma non l’hanno capito bene.
(Qui c’è la parte 1 e la parte 2)
L’entusiasmo diffuso per il Rwanda è un tappeto sotto cui si cela un bel po’ d’immondizia?
E torniamo dunque al deus ex machina del nuovo Rwanda. Chi è davvero Paul Kagame? Dietro al velo di ipocrisia mondiale nell’accettazione di un presidente che infondo, seduto lì per mandato ventennale, fa i comodi di molti, c’è un uomo tutt’altro che semplice da raccontare. Nato da una famiglia Tutsi e cresciuto in Uganda, si unisce presto a un gruppo di ribelli e frequenta una scuola militare in Kansas, negli Stati Uniti (Fort Leavenworth). La sua coscienza politica si forma a suon di ingiustizie, memorie di un paese che lo boicotta in quanto Tutsi, e mazzate sulla testa in quanto soldato semplice. Kagame torna in Rwanda nel 1990 e si mette a capo delle milizie Tutsi. Il resto, se avete letto fino a qui, lo sapete.
I giornalisti che lo hanno incontrato lo descrivono come un tipo preciso, stoico, austero. Risoluto, ecco. Va matto per Twitter, proprio come Donald Trump, e legge l’Economist, da cui poi studia nuovi piani per risollevare il suo Paese e i villaggi periferici le cui strade, lastricate di fango e feci, ricevono annualmente miliardi di dollari da molti Paesi occidentali. Insomma, raccontato così Kagame è un tipo che può pure piacere. E infatti piace. Non solo è amico di personaggi celebri come Bill Gates, ma gode di stima e rispetto da politici di tutto il mondo. Da Tony Blair a Bill Clinton, tutti vogliono un pezzo di Kagame. Un paio di cose, effettivamente, gli vanno riconosciute. Durante il governo Kagame, come già detto, la mortalità infantile cala vertiginosamente e l’assistenza sanitaria riceve fondi per coprire quasi tutta la popolazione. I meriti di Paul viaggiano dalla lotta alla povertà all’emancipazione delle donne. Oggi il Rwanda ha la percentuale di donne in parlamento più alta di tutta l’Africa e l’aspettativa di vita è di 57 anni, contro i 35 del 1994. Embè, a conti fatti, qualche assertivo passo in avanti nella modernizzazione c’è stato.
A Kigali, la Capitale, non ci sono quartieri degradati. Semplicemente, non esistono. Come una perla in mezzo al nulla, la città è specchio e immagine della bellezza e della pulizia. E come è possibile? In un continente come quello africano è davvero difficile immaginarsi le popolazioni locali che non vivono in uno stato di degrado polveroso e arrugginito. Semplice. Non esistono quartieri degradati perché il governo non lo permette. Allo stesso modo in cui non si permette a un bambino con le mani sporche di cioccolato di andare a sedersi sul divano bianco. Vagabondi, venditori ambulanti, piccoli delinquenti e spacciatori sono presi, lavati e inseriti in un piano di rieducazione voluto e promosso dallo stesso Kagame nel 2010. La maggior parte dei personaggi sopracitati vengono fisicamente portati dentro centri di riabilitazione nell’isola di Iwawa, nel bel mezzo del lago Kivu. Lì, forse, chi può dirlo, vengono lobotomizzati come nell’indimenticabile Nido del cuculo. Non si sa bene cosa intenda il governo con “rieducazione”, sta di fatto che le autorità parlano di questi centri come delle Hawaii per i ruandesi cattivi, e che la popolazione locale la vive come Alcatraz. Quello che accade dentro i centri è ad oggi materia di dubbi, perplessità e alzate di spalle per i Paesi occidentali. Iwawa, quien sabe?
Paul Kagame contro tutti, ma soprattutto contro Paul Rusesabagina
Quello che ad ogni modo lascia con il groppo alla gola quando si parla di Kagame, e più in generale dei suoi metodi…beh, diciamo le cose come stanno, i suoi metodi di repressione, è la furia su cui si abbattono, impietosi. Come si sono abbattuti su Patrick Karegaya, nel 2014. Karegaya, ex-capo dell’intelligence di Kagame, era fuggito in esilio e divenuto critico del regime in circostanze che non ci è dato sapere, viene trovato ucciso dai sicari. Sul cartellino esposto fuori della stanza d’albero in cui soggiornava nella Capitale c’era la scritta “do not disturb”, e il suo nome è solo uno dei molti su cui si è scagliata dura la pietra, peraltro miratissima, della repressione. Trova la stessa tragica e secretata fine anche Révocat Kermangingo, esponente di spicco nella comunità dei rifugiati ruandesi in Mozambico. Nessuno dubita da dove arrivino gli ordini di colpire gli oppositori del regime, ma anche con il wi-fi gratuito e i social network liberi, in un clima di così omertà e terrore, nessuno dice nulla. E quindi arriviamo a Paul Rusesabagina, che abbiamo conosciuto all’inizio di questo lungo articolo.
Certamente coinvolto in gruppi di opposizione fuori dal Paese, Rusesabagina aveva vissuto anni in esilio dopo il genocidio del ’94 e, forse, era ed è l’uomo che più fra tutti critica il regime di Kagame, anche attraverso l’invio di denaro a forze armate che si oppongono al Presidente. Nel 2020 Paul era stato indotto a imbarcarsi su un malconcio aeroplano, a Dubai, convinto di essere pilotato verso il Burundi, ma l’atterraggio è avvenuto invece a Kigali. Con l’inganno, dunque, Kagame ha trascinato a sé l’uomo-eroe che ha salvato i Tutsi, e che con forza rema contro alle malfatte del suo governo. Perché Kagame non ama condividere la fama, non dimentica e non perdona. E questo è il secondo Rwanda, lo sporco sotto al tappeto di innovazione che “Visit Rwanda” non vuole farci vedere. Ancora una volta, veniamo imboccati come neonati da una mamma che ci dà dolce poltiglia edulcorata e dietro la schiena nasconde il libro delle atrocità. Mamma Africa è spaventata da Kagame, ma ha le mani legate dalla storia, dall’esercito e dall’impotenza di un popolo che senza di lui, vivrebbe nella miseria.
Il Rwanda è un Paese doppio. E noi ricordiamo il 1994 solo come l’anno in cui Silvio Berlusconi diventa Presidente del Consiglio in Italia. Un’agrodolce commedia all’italiana, incommensurabile rispetto a ciò che accade in Rwanda quell’estate. Osserviamo questo Paese con quasi trent’anni di distanza, ci sentiamo un po’ fatti: strabici e confusi, manipolabili e inconsapevoli. Siamo di fronte a un interrogativo che non sappiamo risolvere. Sulla via dello sviluppo, ci sono ancora dei costi che sono accettabili?
Perché ci riguarda?
Nel caso a qualcuno venisse in mente di dire: e a noi…? Ce ne frega, ce ne frega. Ci riguarda. La vicenda in Rwanda non solo è un capitolo nero degli anni ’90, ma serve a capire che la storia non è mai una sola e non è mai una volta per tutte. Possiamo anche voltarci da un’altra parte, e continuare a pensare: ma tanto in Africa le cose sono da sempre complicate. Come però cantava De André: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti».